lunedì 27 dicembre 2010

si bien caché


Passato.
Come ogni anno c'è stata la folla, le valanghe di regali da impacchettare, le clienti impossibili, le corse per arrivare in tempo dopo la pausa pranzo, le ghirlande da confezionare, le bruciature da colla a caldo e le dita tagliate con la carta da regalo. Il solito orrendo male al collo, la solita voglia di cioccolata.
Poi c'è stata la neve alta.
Le guance rosse e gli alberi caduti in tutta la città ma soprattutto nel mio quartiere: pini di cento anni che perdevano rami enormi per strada, strade chiuse, mezzi pubblici ko, e le grandi camminate nella neve con la musica alta nelle orecchie e il sorriso spalancato su tutto quel bianco e quel silenzio. Il pranzo a casa del mio capo, col pollo fritto preso in rosticceria e il bambino tenerissimo che mi fa vedere tutti i suoi giochi e poi si adagia come un gatto in braccio a me per farsi mettere le scarpe.
Le albe grigie, la pioggia battente, i caroselli di camion dei vigili del fuoco per tutta la città, l'ennesima amica incinta, le foto di Celeste che cresce e la nostalgia di vederla crescere da lontano.
Passato il pranzo familiare e la cena degli avanzi, passate le telefonate di rito, lo zio che ti manda il biglietto con "la centomila" la serata di rito a vedere film di Chaplin.

Essere pieni e vuoti allo stesso tempo, sentire i propri passi che fanno rumore, sentire la pelle che tira, la dolcezza che ti invade e l'amarezza che resta ferma al suo posto.
Natale.
Due giorni per scoprire quanto nascosti possono essere i propri sentimenti.

martedì 14 dicembre 2010

la sicurezza degli oggetti

E' lunedì, e come tutti i lunedì sei libera dal lavoro. Hai passato il pomeriggio a scartavetrarti l'anima e a fare la spesa nel supermercato buono, come ogni lunedì. Poi ti sei fatta una doccia, ti sei truccata, con due secondi di calma invece che -come fai di solito- mentre aspetti che il semaforo diventi verde, hai scelto i vestiti ciondolando in accappatoio per la casa e bevendo tè verde e alla fine sei andata a cena fuori. E la cena è stata buonissima, hai scoperto dei cibi nuovi e hai bevuto parecchio vino buono, hai scartato regali e trovato che erano uno più indovinato dell'altro, abbracciato gente, mangiato un dolce che si chiama "coccolato" (misto di cocco e cioccolato) i capelli ti stanno bene anche senza nessuna molletta di fortuna e senti una strana alchimia che ti fa pensare che sei contenta, un pochino.
Ecco, proprio in quel momento...
...procura che il troppo vino ti faccia mantenere una residua lucidità, perché quando le chiavi della vespa si animano e ti schizzano dalla mano guantata, fanno una piroetta in aria, e atterrano con un discreto "pluf" dentro il tombino davanti al ristorante, devi avere la forza di fare una risata forte, e trenta euro in tasca per un taxi che ti porti a casa a prendere il duplicato, e ti riporti a prendere la vespa. E, soprattutto, dopo tutto questo, è bene che tu sia ancora in grado di sorridere.

Infatti stasera sono proprio fiera di me e di come ho ridacchiato col tassista e giocato a raccontarsi gli incidenti di percorso più pazzi del mondo e i modi in cui sono stati risolti.

mercoledì 8 dicembre 2010

the unsaid


Bruxelles era piena di neve, gelata e freddissima. Per strada si scivolava su pezzi sparsi di ghiaccio sul pavé dei marciapiedi e in albergo tenevamo il riscaldamento così alto che avremmo potuto coltivare orchidee.
Non l'ho vista, la città. Ho visto diversi cioccolatini, biscotti al burro, torte di vario genere e ho scoperto un autore eccezionale rovistando fra i libri di D. destinati alla piccola Celeste. Il suo Saisons è già nella mia lista di desideri per Natale.
Celeste è bellissima, e non ci sono parole per descrivere quello che ho provato a tenerla in braccio. Ci vorrebbero dei colori, o degli odori.
Come ha giustamente detto suo padre, la cosa più incredibile è che prima non c'era e adesso c'è.

Sono tornata a casa e ho fatto l'albero di Natale, una pentola di cous cous che basti per tutta la settimana, e una corsa a vedere l'ultimo film di Woody Allen.
Ho continuato a pensare alle cose che ci siamo detti e ancora di più a quelle che non ci siamo detti, intorno alla tavola tonda sempre ben rifornita di tè e di dolci della cucina dei miei amici. Piccole e grandi cose che si vedevano, galleggiavano nell'aria come bolle impazzite e scoppiavano lasciandoci a metà dei pensieri a condividere solo sguardi e cenni di comprensione.

Qui oggi c'era una specie di scirocco appiccicosissimo e 15 gradi, e io ero ancora vestita come a Bruxelles.

domenica 7 novembre 2010

Primo fine settimana di novembre


Passare il sabato a chiacchierare con un amico che sta dall'altra parte del mondo, (qui sono le una di pomeriggio, che ore sono lì?) consigliargli di uscire (dai esci, prova a invertire la tendenza di questa giornata), poi vestirsi, fare una passeggiata, passare tre ore in libreria e scoprire che c'era la presentazione di un libro, anche interessante, comprare il nuovo di Franzen, chiedersi in quale vita parallela ci sarà tempo di leggere quel tomo delle dimensioni di una piccola enciclopedia, trascinare le buste in giro per il centro, comprare pasticcini e passare la serata a cena con gli amici, parlare di cose importanti e no, ricevere un libro in prestito, vedere un concerto buffo in un posto sperduto, dormirci sopra.
Poi un pomeriggio piovoso con tè e torta di mele in campagna, in una casa piena di opere d'arte e ricordi, sentire palpabile l'affetto nell'aria, sentirsi in famiglia.
Poi ultime chiacchiere prima di andare a dormire, un paio di acquisti on line, ed ecco, questo fine settimana si è trasformato in una specie di piccola rinascita.
Come ho fatto?
Ci ho creduto.
Anche solo cinque minuti, ma ci ho creduto.

lunedì 25 ottobre 2010

cristallo


A chi serve tutto questo parlare.

Tutto questo analizzarsi, tutto questo capirsi, scorticare le emozioni fino a vederle nude e crude, tutto questo darsi torto continuamente, punirsi, ricredersi, assolversi, sentirsi comunque addosso nuvole di domande che fluttuano e si depositano come foglie di tè sul fondo della tazza.

Sotto casa, nella via cieca dove abito, macchine parcheggiate e autoradio accese con gente che bisbiglia. Pozzanghere di acqua gelida che riflettono lame di luce storta. Le auto della polizia stradale che ordinatamente rientrano in caserma.

Nel silenzio della notte fra sabato e domenica ho fatto la cosa più difficile del mondo. Ho tolto dagli scatoloni i cd e li ho sistemati tutti nella libreria, uno per uno, a un anno dal trasloco.

Dopo aver concluso l’operazione, ore 4:38 del mattino, ho saputo con certezza perché avevo aspettato tanto a decidermi a compiere questo passo. Lettere, biglietti, foto, date, parole che saltavano fuori come coriandoli da una busta, totalmente incontrollate e totalmente inaspettate. Roba che non ha ancora trovato un posto dentro questa casa, che forse non ce lo troverà. Roba che non ha un posto da nessuna parte: nessuno la conosce e i pochi che la conoscono non la ricordano, allora a chi serve rileggere, cercare di capire e mettere a nudo tutto? E se non serve, cosa fare con quella mole sproporzionata di ricordi che son già perduti, perché impossibili da condividere?

Alla fine, eccola, la libreria colorata piena di dischi che sognavo da anni. Tutto spolverato e ordinato alfabeticamente. Tutto: senza censure, senza accantonamenti di sorta. Un percorso iniziato nel 2001, anno in cui mi fu regalato il mio primo lettore cd.

Tutto quel che non era musica, spolverato, ammucchiato, e chiuso dentro una scatola l’ho messo, alla fine, in uno scaffale in alto. Una specie di terra di mezzo delle decisioni sospese. Poi mi sono seduta in poltrona e ho iniziato a leggere il nuovo romanzo della Byatt.

Ho pensato che quel momento mi piaceva, e che ero stremata.

Brava biondina.

La polvere, quella accumulata e tolta col piumino, non è volata fuori dalla finestra come avrebbe dovuto. L’ho ingoiata io.

venerdì 15 ottobre 2010

senza pudore


Il mio shampoo si prende gioco di me.
C'è da dire che io glielo permetto: ieri al supermercato davanti a quella fila di bottiglie ho scelto proprio quella, e credo di averla scelta apposta per quel colore spudorato, un po' da adolescenza, un po' un hello kitty da grandi (ma cosa dico), e un po' me lo aspettavo profumoso e lucido anche dentro. Quello che ignoravo è che il colore spudorato della bottiglia fosse lo stesso di quello del liquido, cosa che mi ha messo un po' di apprensione.
Ma la cosa più assurda è l'etichetta che dice:
"Lasciami accarezzare i tuoi capelli con il mio abbraccio di seta" e poi "applicami e massaggia fino ad ottenere una schiuma cremosa. Stupisciti con un lungo oooh! Poi risciacqua e ripeti (anche l'oooh!)."

Ora dico io.

Dopo questa lettura ho acceso la radio e mi sono messa all'ascolto di Uomini e camion.

lunedì 4 ottobre 2010

up

Un mucchio di palloncini vola via dalle mani di un bambino e corre in cielo, in un cielo d'ottobre limpido, che sembra dipinto. Un bambino è caduto e si è sbucciato. Un altro insegue la sua amica sotto lo scivolo, poi si stufa e dà un calcio al pallone. Io vado a vedere la mostra del Bronzino, evento cittadino dell'autunno, la trovo interessante, esco con parecchi pensieri e due cartoline che sono già sul frigo. Per le sale di Palazzo Strozzi c'era anche Paolo Poli, elegantissimo e molto bello, che andava avanti e indietro da una tela all'altra e si soffermava poco su ciascun quadro. In negozio il figlio del Capo mi racconta tutta una storia su una casetta con gli uccellini e mentre lo fa è tanto assorto che mi accarezza le dita della mano una per una, poi un po' le stringe e un po' le accarezza di nuovo, finché la mamma non lo chiama per andare e allora lui si interrompe e cambia discorso mentre si incammina fuori. E' un bambino tenero. Come tutti i bambini mentre ti racconta qualcosa segue un suo filo mentale misterioso che io trovo affascinante, potrei starlo a sentire per delle ore. Chissà, forse sono io che regredisco.
Tutto questo, più un pranzo in campagna a base di tortelli mugellani, succedeva negli scorsi tre giorni. Oggi no, oggi piove, di uscire non se ne parla allora metto un po' a posto in casa e sento tutti i possibili telegiornali che ci sono alla radio. Ho anche ballato un bel po' mentre lavavo i piatti e ascoltavo un disco, fra un telegiornale e l'altro.

Mi dicono che è questa la mia vita che la devo accettare così com'è perché è questa, punto e basta. E io ci credo, che devo fare. Desiderare le cose è impossibile, quindi mi tengo quelle che ho, che sono queste cose, questo bel giardino che mi porto dentro e la pioggia fuori e quei trenta secondi in cui mi è venuta voglia di correre dietro ai palloncini che fuggivano via e fare come il signor Fredricksen per vedere un po' dove andavo a finire.

giovedì 23 settembre 2010

cristallo


Non so dire cosa sia successo ma oggi tutto sembra fragile e trasparente.

Il caffè, i miei post it, i fiori sulla tavola. Ascoltare gli strokes di prima mattina, un film di Fellini prima di dormire. E’ tutto così familiare e tutto estraneo.

Vivere con la sensazione costante che qualcosa stia per accadere e notare le piccole differenze giorno per giorno, eppure fare in modo che tutto sia silente, che le giornate restino immutate.

Mi ricordo le cose, quelle piccole e quelle grandi, ma solo io le ricordo. Come il finale di quella poesia recitato una sera di giugno. Proprio in quella poesia mi sono imbattuta a Venezia, per caso, (perché il caso è un comico eccezionale) e a momenti cado per terra. Guardo le persone negli occhi nella speranza che riconoscano il mio sguardo, ma non succede mai e penso che sia perché lo sguardo non è più, non sarà più lo stesso.

venerdì 17 settembre 2010

nota a margine


tanto per aggiungere anche la mia sul film della Coppola, mi ha lasciato amareggiata vedere una platea intera ridere e prendersi gioco di un povero diavolo che pasticcia un po' a fare un piatto di spaghetti, e restare indifferente di fronte allo spettacolo di miseria che sono i dieci minuti di film ambientati in Italia.

Certo, però, noi italiani gli spaghetti li sappiamo fare.

Però il film mi è piaciuto. Forse è un po' più esile di quello che speravo, ma l'aspettativa era alta e nell'insieme non sono delusa.

giovedì 9 settembre 2010

riletture

Primo giorno con le scarpe chiuse, quest'anno molto presto.
Ero uscita fiduciosa scalpitando nei miei sandali questa mattina, poi invece sono tornata indietro a mettere le scarpe da ginnastica.
Settembre: l'unico periodo dell'anno in cui metto le scarpe da ginnastica; gli arrivi della merce natalizia; la fiera; eccetera eccetera.
Settembre, i nuovi inizi.
Appendere un quadro, togliere la locandina del cinema all'aperto dal frigo, sentire il bisogno di essere abbracciata, con l'arrivo del primo freddo.
In questi giorni di nuovi inizi sento la necessità di rileggere cose che ho già letto, come se mi servisse tornare in un territorio dove ho già camminato, per rivedere com'è adesso che io sono completamente diversa. Cose brevi. Alcuni pezzetti di saggi, qualche racconto di Flannery O'Connor, il finale di un romanzo di Barth, e poi Pascale.

E' capitato che mentre ero al mare ho trovato sul comodino una raccolta di racconti di Pascale che era stata dimenticata lì un po' di estati prima dalla mia amica. Lì per lì non ci ho badato. Poi, però, c'è stata una notte in cui non riuscivo a chiudere occhio perché combattevo con la paura che ci fosse un topo sotto il letto. Io non sono una tanto paurosa, anzi quasi per nulla, ma i topi mi terrorizzano. Era tardi e non potevo svegliare nessuno e ad alzarmi non ci pensavo nemmeno perché temevo che mi sarei potuta trovare faccia a faccia col mio nemico. Quindi mi sono messa a (ri)leggere.
Sarà stato tutto quel silenzio e quella luce bassa, ma la tensione per la paura si è allentata e mi sono trovata avvolta da una specie di vicinanza, a certe parole e a certe sospensioni.
Sono tornata su una strada già percorsa e ci ho trovato qualcosa di completamente nuovo. E' stato emozionante.

La mattina dopo ho raccontato la faccenda alla mia amica e lei ha detto che trova che ci sia una specie di corrispondenza fra la mia indole e il modo in cui scrive Pascale.
Mi sono sentita assai lusingata.

Poi, comunque, il topo c'era davvero. Ma forse dovrei essergli riconoscente.

mercoledì 1 settembre 2010

emozioni di ritorno

È stata una lunga estate, piena di riflessioni e di letture.

Ho passato giorni meravigliosi in un posto che mi è caro e poi ho passeggiato in una Venezia silenziosa scoprendo parti di me inedite e, credo, molto importanti. Adesso sono a casa, a casa mia (posso dire che ancora faccio fatica a pronunciare queste due parole insieme senza sentirmi un po’ sottosopra e anche un po’ a disagio?), progetto di appendere un paio di poster, sono ricoperta di scartoffie. Va bene così.

Va molto bene.

È un clima molto simile a quello della scuola che ricomincia: la città che torna ad essere freddina, un maglioncino buttato addosso la mattina mentre vado al lavoro, l’abbronzatura che inizia a essere un po’ senza senso nel ritrovato tran tran quotidiano.

Al solito, la piccola iena che mi divora da dentro mi tende dei tranelli, nei quali cado con tutte le scarpe.

Sono stata tanto felice di sapermi in grado di camminare per ore e ore e ore senza nessuno che mi corresse dietro, nemmeno la mia ombra, e poi sono stata infelice, come era ovvio, per essere stata di nuovo indulgente verso le mie fantasie. Fantasticare non va bene per quelle come me, si finisce per credersi alte e con le gambe come quelle della Loren.

Torno indietro e sono carica di doni, piccole cose da custodire, messe da parte per me sola. Come l’immagine dell’angelo del Tiepolo che salva il muratore che cade dall’impalcatura, o quei dieci minuti che ho passato imbambolata davanti a una vetrina dietro cui era esposto nudo e crudo un pezzo della mia vita. (L’ho comprato e ora l’ho nascosto in un ripiano della cucina). Oppure le passeggiate vicino all’acqua, di notte, con quel tizio che suonava il violino, sempre la stessa aria malinconica, tanto effetto filmaccio a raccontarla così, eppure lì per lì tanto struggente.

Il lavoro è tanto, dappertutto, una buona parte è anche indietro, e ora dovrei essere lì a occuparmene.

Ma per un pochino mi godo ancora questo clima, l'odore della cartella e dei libri nuovi.

Quella piccola euforia, si sa, finisce presto.

venerdì 6 agosto 2010

Bòna

Io andrei.

mercoledì 28 luglio 2010

cristallo

Alba.

decine e decine di post sono iniziati così, e se non sono iniziati così avrebbero dovuto, è all'alba che penso alle cose più microscopiche e a quel che veramente significa tutto quello che mi circonda. Ed è all'alba che mi guardo intorno, che provo paura per il silenzio, che gli edifici sembrano animati, che le persone compaiono senza che io le abbia invitate, che le parole tornano a risuonare e che assumono significati completamente diversi, che la letteratura esce dalle pagine e che provo nostalgia per una me stessa che non c'è. Oggi all'alba ho parlato con Dick Diver, sorseggiavamo qualcosa di ghiacciato e ho chiesto come si fa dopo essere stati a tante feste e aver partecipato a tante brillanti discussioni a starsene inscatolati in una città di provincia, facendo meccanicamente ma impeccabilmente il proprio mestiere, ma lui ha masticato un cubetto di ghiaccio senza rispondere. Dick passa di rado e parla poco, un giorno voglio sapere da che dipende quella smorfia che ha sul viso, che sospetto sia una specie di ruga d'espressione dovuta all'aver sorriso molto sia per genuina contentezza che per ipocrita educazione, e poi smesso.

Chiama il lavoro sono le dieci del mattino. Io sono ancora in mutande e devo uscire fra venti minuti per andare a prendere le nuove bozze da correggere, ma non dico così, penso fra me di dire che ho il caffè sul fuoco, anche se non ho nessun motivo per mentire e mentre penso questo penso immediatamente che non mi inventerò proprio nulla, ché non ce n'è bisogno, e poi non è che non mi vada di parlare, solo che prima di una certa ora la voce non mi esce come dovrebbe, è più bassa e mi fa sembrare un po' scema e allora parlo poco volentieri. Nel frattempo entra una cliente, così la conversazione finisce velocemente e io metto su il caffè per davvero.

intanto guardo l'acqua della doccia/cascata che picchia per terra e smuove i fiori di gomma antiscivolo e medito su che mettermi oggi. Eccomi, sono paolino paperino: jeans e canottiera bianca oppure jeans e canottiera nera? Arduo dilemma. Le scarpe no. Le scarpe colorate. Suona di nuovo il telefono, esce il caffè e quella sensazione di essere sola scompare di colpo. Non sono sola, c'è un mondo che corre tutto intorno a me, che non si cura dell'estate e delle vacanze, che in vacanza non ci va, che non ha bisogno di maremaremaremare come me che penso sempre di starmene nuda sotto una palma a fissare le nuvole e a nutrirmi di noci di cocco, (ci penso sempre, estate e inverno, non solo adesso) oppure tutta questa gente ne ha bisogno quanto me ma non ci pensa, non lo dice, non lo sa. Caffè, orologio, sono le undici meno un quarto e non ho ancora fatto la doccia, come è possibile? Come si fa a dilatare così tanto il tempo senza accorgersene? La pila di libri ammucchiata sul tavolo mi guarda e chiede che faccia qualcosa. Ecco come passano altri dieci minuti fra caffè e progetti di letture. Il bambino della casa accanto lancia un grido acutissimo, è l'ora della poppata. Ripenso alle parole di ieri, quelle che mi vergogno di ripetere. Mi vergogno di ripeterle anche a me stessa, che razza di cacasotto che sono. Come ho fatto a dirle a voce alta ieri? Come, come... Entro sotto la doccia con dietro un disco di Noah and the Whale.

San Frediano ore 12. Recupero le bozze, faccio due chiacchiere con le ragazze, parliamo di vacanze naturalmente. Mi manca questo quartiere, mi mancano le strade scassate, i crocchi di gente di tutti i colori che chiacchierano negli angoli, il mio baretto e mi manca tantissimo la cartoleria. C'è una cartoleria favolosa proprio vicino alla piazza che vende ogni genere di cosa che scriva o che colori e ogni genere di carta da quella da disegno a quella per i pacchi regalo. Tutto profuma lì dentro, e non c'è niente che non comprerei. Anche oggi cedo alla mia fissazione per le penne verdi. Prima o poi dovrò sottoporla a un medico, questa mania. Torno indietro verso le strade ordinate del mio nuovo quartiere, ascolto la radio con le cuffiette, c'è il telegiornale, butto distrattamente un occhio alle vetrine mentre sono ferma ai semafori. ancora dieci minuti di traffico e sarò arrivata.

Non è difficile provaci: uno due tre apnea. uno due tre... a me piace calcolare quanto tempo riesco a restare senza respirare. Mi è sempre piaciuto fin da piccola, quando chiesi in regalo un orologio col cronografo ai miei genitori pensavo a questo: che potevo calcolare... La penombra in casa è come un pergolato fresco sotto cui sostare e rinfrescarsi. Nella penombra tiro fuori acqua fresca, insalata e affetto dei pomodori. Ci sono delle cose da lavare,
la piantina di salvia resiste, il basilico è morto. Troppo amore. Troppa cura a questa pianta così delicata, troppa acqua non troppo poca, troppi tentativi di esposizione a una luce migliore, troppo di tutto. Una pianta profumatissima e delicata, troppo amore, così si può solo soffocare. E così mi torna in mente il sogno che facevo prima dell'alba, stanotte. Prima che arrivasse Dick Diver. Sognavo che ero in una specie di albergo e che bisognava organizzare i posti in cui avremmo dormito, sognavo che il mio amico e la sua fidanzata incinta dormivano in un letto piccolo piccolo tutti e tre e io da sola stavo in un letto grandissimo. E non dormivo. Loro sì, io no. Che cosa insensata, mi dicevo anche in sogno, che cosa insensata. Eppure non stanno male, mi dicevo, io soffocherei. Io soffocherei... poi mi è mancato il respiro e mi sono svegliata. E ho trovato Dick Diver.

Dice l'agiografia di Leonardo da Vinci -eh se la prendo larga- che lui abbia detto "chi è solo è tutto suo, chi divide la vita con un compagno è suo solo a metà". Poi dice anche che la passione per la natura gli è venuta osservandola, e a osservare la natura gli aveva insegnato un suo zio perdigiorno che compare nell'estratto familiare fra le bocche da sfamare con la seguente descrizione "sta in villa e non fa nulla".
Ora Leonardo era un genio ed è diventato un genio, fra le altre cose, aprendo in due le lucertole da piccolo. Cosa che abbiamo fatto tutti senza diventare geni, ma magari un po' osservatori sì.
Stanotte ci pensavo, a quante osservazioni ho messo insieme, a quanto sono dettagliate e fedelmente annotate e trascritte con la penna verde e analizzate.

Annotatrice di fatti inutili e calligrafa in verde.
Se fossero dei mestieri mi sa che sarei ricca.

giovedì 22 luglio 2010

risate a denti stretti


Oggi ore 9.30 sono arrivata in negozio con colazione già fatta -quasi un miracolo- un sonno spaventoso e un caldo già decisamente superiore alla soglia di sopportazione. La mia, intendo, che come è noto resiste impavida a 38 gradi girandosi di là. Però l'aver già fatto colazione aiutava, in fondo è la parte più bella della giornata, la colazione, sempre e comunque.
Accendo il computer.
Schermata nera.
Un ragionamento di dieci minuti, poi una scritta.
Chiamo il tecnico.
"il computer non si accende, compare una schermata nera e dice questo e quello"
"oddio"
"come oddio?"
"è la cosa peggiore che ti potesse succedere."
"cioè?"
"Cioè il tuo computer ha appena detto che è morto e ti prega di seppellirlo"

Ora, per fortuna non si trattava del mio computer, però un po' di effetto me lo fa lo stesso. Siccome io in negozio praticamente ci vivo, dentro ci sono tutte le mie ore lavorative, tutte le mie foto scaricate in un angolino, un paio di traduzioni e due tesine. Ah, e la mia tesi di laurea.

"vengo domani" dice il tecnico "che qui sono tutti in ferie e io ho lavoro fino alle nove di stasera."
"domani? Ma io..."
"guarda, non mi posso commuovere, ti giuro che dico la verità.

Ma la verità è che nel 2010 lavorare una giornata intera senza computer è veramente impossibile.
Tutti gli ordini per i clienti in attesa: saltati;
l'ordine che dovevo fare alla ditta danese: saltato;
l'inventario del Natale 2009 che dovevo consultare per compilare l'ordine per la ditta danese: irraggiungibile: quindi l'ordine per la ditta danese non si può fare neanche a mano;
la stampa delle bolle per la merce in partenza: saltata;
la conferma dei pagamenti della merce acquistata on line: saltata.

E di sicuro mi sto scordando qualche cosa.
Comunque è stata una giornata estenuante. Le cose da non poter fare si moltiplicavano, le persone da chiamare, con cui scusarsi, con cui litigare, con cui fingere, sembravano infinite.
Ho iniziato a navigare on line col telefonino, pur di non sentirmi dire per la ventesima volta
"c'è un problema? Mi mandi una mail a questo indirizzo"
"io non posso usare internet è QUESTO il problema!"
La capa, giunta in negozio per cercare di arginare le falle, a un certo punto mi ha guardata e ha cominciato a ridere.
Ho cominciato a ridere anche io.

Siamo a un passo dall'isteria, tutti.


N.B. Un grazie alla B. che nel momento di massima crisi è arrivata con due bibite fresche. Gli amici, nel momento del bisogno, a volte neanche li devi cercare.

sabato 17 luglio 2010

pietre

In queste giornate bollenti uno pensa alle cose più varie e diverse, e si immedesima nei sassi, nei fiori, nelle pietre degli edifici, e tutti i pensieri evaporano come bollicine senza lasciare altro addosso se non una specie di residuo di futilità e fatalismo.
Così, pensa che ti ripensa, sono caduta dal motorino. Non era colpa mia, era colpa del signore che non mi ha vista, complice la ridicola macchina enorme, fatto sta che dovunque uno si trovi non essere vista non fa mai granché piacere, e soprattutto non fa piacere appoggiare un piede nudo sull'asfalto zozzo e rovente in cerca del sandalo perduto nell'urto.

Altra cosa che lascia un po' interdetti è l'amica dell'amico che ti dice che si è appena laureata nel tuo stesso dipartimento e ti chiede consigli per il futuro.
"Futuro?" dico io, e immediatamente penso ai giorni in cui al futuro ci pensavo come a una cosa diversa dal presente, son stati pochi, lo confesso, ma insomma la parte della tipa che ci è già passata e che dovrebbe dare delle speranze alla fanciulla già di per sé speranzosa non mi si addice tanto, tanto che ho spudoratamente mentito sulle cose belle che ti capitano quando ti sei scelta come compagna di vita la letteratura e la lingua di un altro, e ho giurato che è una cosa meravigliosa e che non ti abbandona mai. Quest'ultima non era propriamente una bugia (va bene, neanche la prima è propriamente una bugia), d'altra parte mi capita anche di pensare di avere accanto, più che un compagno fedele e amoroso, un marito bisbetico che ti sgrida se non hai cucinato la cena, ma questa è solo una sensazione degli ultimi tre giorni di stanchezza e insonnia, non so se la sottoscriverei domattina, anzi, quasi sicuramente no.

Mentre io penso agli ordini in sospeso del magico mondo delle candele, alle clienti e a bere 4 litri di acqua minerale al giorno, la mia amica M. scrive delle cose belle, e le scrive proprio bene. Forse avrei dovuto far leggere questo, all'amica dell'amico in cerca di speranze per il futuro.


lunedì 5 luglio 2010

un'ultima domanda

Alla domanda "cos'è che la rende felice" la candidata abbassa il capo, arrossisce, poi non sa rispondere, poi balbetta: "certe luci del giorno, e certe canzoni".
Aggiunge, arrossendo ancora di più e trattenendo una lacrimuccia di vergogna "cose minuscole".
Questo lo fa sorridere e lo porta alla seconda domanda.
"Ma perché si vergogna delle cose che la rendono felice?"
Nessuno lo sa e non se ne esce.
La candidata cerca elegantemente di cambiare discorso, torna a casa e, dopo un po' di ore, quando la calura lo permette, apre una bottiglia di vino bianco a lungo serbata in frigo per dare un senso a momenti come questo.

martedì 22 giugno 2010

un anno fa

Ho ritrovato il quaderno dell’anno scorso.

Fa un certo effetto rileggere le pagine scritte nei momenti di pausa del master, quando cercavo di tenere gli occhi aperti e discutevo con i miei colleghi di come avevamo tradotto quella singola piccolissima parola che però cambiava il senso di un’intera frase, o di un intero mondo attaccato a una frase.

Mi sembra impossibile che sia già passato un anno intero dalla tesi, dall’estate fatta di ricerche di testi e di consigli, dalla tre giorni in Svizzera, quando già sapevo che stavo coltivando una bella illusione.

Adesso traduco, un po’, mi hanno appena pagato un paio di lavoretti giusti giusti per godermi qualche sfizio in più in vacanza, anche se in vacanza non so se e quando ci andrò.

La mia illusione è molto ben nascosta, oggi ne ho discusso in un modo anche troppo franco, tanto franco da impedirmi di pensare ad altro per il resto della giornata. Io ho sempre tradotto, ho sempre scritto quello che pensavo su pagine nascoste in libri di altri in modo che fosse impossibile anche per me ritrovarle, se non per sbaglio. Ho sempre amato le parole, soprattutto le parole altrui. Mi è sempre bastato sapere che coltivavo la mia passione con dedizione e pazienza, senza smettere mai di farlo, senza chiedermi perché o per chi.

Questa cosa non è cambiata, anche se la pazienza a volte vacilla. Ma sento un filo spezzato dentro di me: il momento in cui ho capito che non avrei sopportato altri rifiuti e altri capitomboli ha anche coinciso col momento in cui ho smesso di pensare che nella vita domani le cose potrebbero cambiare drasticamente e ricominciare da capo, come su un bel foglio bianco.

Un nuovo romanzo, una nuova estate da cominciare, tornare su passi abbandonati dieci anni fa, eppure essere in una nuova fase. Avere una nuova casa a cui tornare. Sarebbe questo il mio modo di voltare pagina.

Non sono convinta che mi basti.

Intanto leggo Elizabeth Strout e dormo sempre meno.

mercoledì 9 giugno 2010

madeleine


In questo periodo Firenze di sera è in un mistero di profumo di gelsomini nascosti in giardini dietro muri altissimi. Al di là dei muri si intravedono chiome di alberi, si intravedono luci accese e si sente questo profumo dappertutto, un misto fra erba tagliata e gelsomini.
Quando ero piccola e sentivo questo odore io pensavo alla felicità come a una cosa concreta.
Mi ricordo anche una volta che l'ho detto a voce alta a mia madre mentre stavo a letto a leggere e aspettavo, anche allora, il sonno.
Quel profumo era un preludio, l'inizio dell'estate, delle vacanze, quel profumo faceva intravedere il mare in lontananza.
Adesso quel profumo mi fa aprire il cuore in due e mi fa pensare alle ciliegie.
Non più all'estate, non più ai viaggi.
Alle ciliegie e alle pesche.

giovedì 3 giugno 2010

compendio

Come fu come non fu,

ogni tanto la vita mi sembra di nuovo una cosa con un capo e una coda.
Non è vero.
Mi sembra ancora tutto scombinatissimo.
Ma è così che sono fatta io, fatta per vedere come sono scombinate le cose assimilarle e provare a risputarle di nuovo dritte.
Mi fa male, mi fa bene, mi fa essere quella che sono.
Quella taciturna e disillusa, quella entusiasta di nascosto.
A me piace la vita.
Mi piace assaporare gli attimi e le cose minuscole; le cose che sento mi sembrano preziose, instabili e reali.
A me piace essere crudele con me stessa e dirmi quanto ho sbagliato e quanto sono stata stupida.
A me piace dire a me stessa delle cose estremamente scomode e cattive.
E poi mi piace pensare alle cose che ho fatto bene e dirmi in un orecchio che potevano essere fatte meglio.
A me piace non pentirmi.
E anche se mi sono pentita di alcune cose che ho fatto, mi piace dire a me stessa "smettila di compiangerti, ormai è fatta".
A me piacciono il buon cibo, il sesso, i libri, il mare e le scarpe.
Mi piacciono i miei capelli il mio naso e i miei piedi, credo che mi contraddistinguano.
Mi emoziono ogni settimana quando cambio i fiori sulla tavola.
Mi sento vulnerabile e allo stesso tempo ho capito di avere dentro la forza di una leonessa, perché l'ho vista coi miei occhi in azione. E' quella che mi permette di andare avanti anche quando il dolore mi spacca in due.
So che posso passare ventiquattro ore a piangere avvolta in una coperta di pile e anche ventiquattro ore a ballare o a studiare fino a che non mi si incrociano le righe davanti agli occhi.
A me importa delle altre persone.
Cerco di non fare al prossimo quello che non voglio sia fatto a me. Non auguro mai sventure a nessuno, nemmeno a chi mi fa soffrire, e non mi sono mai piaciuti i colpi sotto la cintura, nemmeno nei litigi più accesi. Ma non significa che non sia capace di giudicare quella che per me è una cattiva azione.
Sono imperfetta, mi contraddico in continuazione, ripeto spesso gli stessi sbagli, mi graffio la faccia e mi sono spaccata più di una volta i denti nel sonno.

La scorsa settimana mi hanno detto che ho un cuore nobile, e per questo e per un sacco di altri motivi questa settimana ho pianto molto.

giovedì 27 maggio 2010

pedicure

Non so,
il 2010 sembra un anno particolare: avvenimenti grandi, avvenimenti piccoli, comunque roba di un certo spessore. Contratto a tempo indeterminato, lavoro triplicato, altri lavori, stanchezza multipla, casa da tirare su, eccetera eccetera eccetera.
Ma non è la fatica di un anno un po' difficile quello che mi colpisce.
Mi colpisce lo squilibrio.
Ora non giova che le cose nel nostro paese vadano a rotoli, non giova la crisi, non giova la frustrazione generale, ma le persone mi sembrano sempre più scombinate, sempre più prive di autocontrollo.
Le sclerate sono all'ordine del giorno o quasi, e quasi sempre sono originate da cose minuscole: un secchio non svuotato, un ago di pino caduto nel posto sbagliato.
Quasi meccanicamente tutte queste schegge di follia mi puntano e inevitabilmente mi trafiggono.
Ora, come diceva la mia amica napoletana, "tu si 'na calamit' 'e pazzi". Credo che sia un po' vero, devo avere un'aria rassicurante, e comunque ci ho fatto l'abitudine da quando il matto del quartiere ha iniziato a sedersi di fronte a me e a fissarmi mentre studiavo al parco.
Ma in questo periodo mi succede così spesso che mi sento pazza anch'io, e forse questo era l'inevitabile finale di questa storia.
Presto mi troverò a camminare su e giù per la strada declamando qualche poesia.
Forse sarà liberatorio.
Per il momento, per brindare alla mia nuova pazzia, mi dipingo le unghie dei piedi di viola.
Buon fine settimana, e buona luna piena a tutti.

giovedì 20 maggio 2010

colonna sonora


Ascolto ininterrottamente i National dai primi di Maggio ormai, come quando da ragazzina ascoltavo la stessa cassetta venti volte in un pomeriggio, e continuo a essere sovraccarica di emozioni, però in un modo diverso da quando ero una ragazzina. Oggi ero così assorta che mi sembrava che certe note mi fossero entrate sotto la pelle, allora mi sono imposta di smettere e ho dato una girata a caso alla rotella dell'I-pod. Ed è saltato fuori Dente che cantava so benissimo cosa c'è nei tuoi occhi bagnati, un po' di pioggia e un po' di ferite...

Intanto, tanto per cambiare, un acquazzone di prima categoria mi travolgeva. Sono rientrata a casa fradicia come quella volta che i miei amici mi hanno buttata di peso dentro la fontana della piazza davanti alla scuola. Capelli appiccicati alla faccia, vestiti da strizzare, fiatone e guance rosse per aver corso.

Non so come spiegarli, certi momenti. E' come essere un filo dell'alta tensione che può fulminare da un momento all'altro chi lo tocca. Sembra tutto regolare e calmo, non manifesto nessun cambiamento apparente.

Ma c'è un tumulto. C'è più tumulto del solito là sotto.

mercoledì 12 maggio 2010

Storia della biondina che passa la notte alla stazione di Milano Centrale

La stazione di Milano di notte non è come quella di Firenze, che è sempre piena di gente assurda. Arrivo da Malpensa sotto il diluvio universale, ma proprio un nubifragio, così forte che copre le voci delle poche persone in giro, così forte che copre i miei pensieri e le frasi che leggo sul libro. Di quelle frasi mi arrivano solo i colori, il fruscio verde della gonna di velluto della regina e visualizzo un verde morbido e senza corrispondenza con quello che mi circonda che è uniformemente grigio e lattiginoso di luci al neon. Compro il biglietto. Sono le 11.53. Il mio treno è alle 5.45. Non so dove andare.
Mi dondolo un po' da un binario all'altro, trascinando la valigia rossa, e accendendomi la prima sigaretta della giornata, alla fine decido di rischiare un po' di bionditudine, benché dimessa dopo le prime dodici ore di viaggio, e mi infilo nella stazione della polizia ferroviaria.
Ho addosso un odore dolciastro, credo di essermelo portato dietro dal duty free dell'aeroporto dove ho provato due o tre profumi mentre aspettavo che la benedetta nuvola decidesse cosa fare di sé. Non è sgradevole, ma non è il mio, e lo sento saltar fuori come un coniglio dal cilindro a ogni gesto che faccio.
I poliziotti della Polfer mi accolgono con una gentilezza rara, offrendomi anche bevande calde per superare la notte.
Sono un gruppo di ragazzi giovani, che parlano del futuro e del presente fumando e ogni tanto ridono di una battuta che capiscono solo loro.
In quel silenzio rotto solo dalla costante presenza del televisore con la pubblicità delle mozzarelle (a un certo punto uno dei ragazzi mi ha guardata e ha detto "che faccio gli sparo?") si assisteva quindi alla scena di una biondina appoggiata alla porta dell'ufficio, con un fiore per capelli agganciato al libro che ha in mano, in mezzo a cinque uomini in divisa, che racconta le peripezie del suo viaggio, mentre qualcuno ride e dice "mamma mia ti metteranno sullo show dei record".

La notte si è schiarita e anche la pioggia si è via via diradata. Si sentiva gocciolare l'acqua dalle tettoie e dalle grondaie.
A un certo punto è comparsa una bambina mulatta, vestita di rosa, che camminava con le scarpe di sua madre mentre lei dormiva su una panchina, e mi ha chiesto delle cose a voce bassissima.
Non capivo bene perché sussurrava, e quando le ho avvicinato l'orecchio alla bocca mi ha chiesto delle cose in spagnolo. Allora le ho risposto e siamo diventate migliori amiche. Anche lei aspettava un treno. E non aveva per niente sonno.

Quando ho salutato i miei compagni notturni, alle cinque e mezza, uno stava facendo colazione con un kinder bueno. Me ne ha offerto la metà ridendo.
Un po' mi è dispiaciuto partire, un po' mi avrebbe fatto piacere stare lì e chiacchierare per davvero, senza le frasi di circostanza e senza i ruoli, solo come sarebbe stato parlare con un gruppetto di amici a notte fonda. E senza quel sonno che mi divorava le gambe.
Ma poi il cielo ha cominciato a diventare viola e poi bianco e in treno c'era un bel tepore e non c'era nessuno e allora mi sono appoggiata al sedile e mi sono tolta le scarpe e ho chiuso gli occhi quasi subito, in quell'odore non mio reso più acuto dal corpo che finalmente riprendeva un po' di calore, e mi sono addormentata in mezzo alla nebbia, fuori fitta, dentro un po' meno.

lunedì 10 maggio 2010

Storia della biondina bloccata da una nuvola.

Poi ti racconto,
di quando mi sono trovata dentro la Royal Albert Hall con addosso un adesivo che diceva "all areas" a sentire il concerto di uno dei miei gruppi preferiti, e di come poi ho conosciuto uno dei musicisti, e me lo aspettavo in un modo e invece era diverso, delicato, gentile, pieno di buone maniere e un po' piccolo di statura.
Poi ti racconto, di come il giorno dopo io e la mia amica M. non riuscivamo a parlare d'altro, di come canticchiavamo ancora le canzoni e di come ci siamo sentite rinfrancate in un pub non più fumoso, visti i divieti, ma che odorava di legno e di chiuso e di calore umano, con le pareti della minuscola stanza ricoperte di cravatte incorniciate, immagino roba di università diverse e di varie epoche, e ti racconto del freddo che faceva fuori, che fa tuttora fuori, che sembra proprio inverno e il vento gelato ti entra nel collo e allora l'acquisto pazzo della vacanza è diventato un maglione di cachemere color pervinca che mi fa sembrare una ragazzina, ma che poi, abbinato alla mia tradizionale austerity, in realtà mi rappresenta molto.
Poi ti racconto, della passeggiata solitaria per le strade, delle tre ore passate a studiare dentro un caffè -e di quanto mi manca il poter stare tre ore a studiare dentro un caffè senza che ogni tre secondi passi un cameriere a chiederti se stai bene - del trovarsi all'angolo con la mia amica che esce dal lavoro, mangiare fuori chiacchierando e poi sfidando le intemperie buttarsi dentro un altro concerto, e poi addormentarsi a casa sul fouton con un libro meraviglioso - pescato a caso dalla sezione non letti della libreria - che ti fa pensare che dovresti scrivere un essay su tutte le cose che hai segnato mentre lo leggevi e che poi lo dovresti tradurre e mettere nella cartellina delle cose che forse un giorno chissà, serviranno.
Poi ti racconto anche della notte scorsa, passata in bianco e di un pianto a caso che non so dire se fosse liberatorio o di awareness, o magari tutte e due le cose insieme, della corsa stamattina per prendere la navetta per l'aeroporto, delle ore d'attesa, del volo cancellato, del gruppetto eterogeneo di quattro con cui stavo per fare la follia di prendere un'auto a noleggio e farmi il viaggio fino all'Italia di notte per non perdere un giorno di lavoro, e di come poi con quel gruppetto ci siamo salutati bevendo birra in uno squallidissimo bar dell'aeroporto, ma sorridendo, prima che la navetta mi riportasse qui, alla casetta della mia amica che mi ha ri-accolta con una cena veloce in un posto greco e un cinema, che era proprio la cosa che ci voleva.
Poi ti racconto, ma ora non posso, perché non so dove sei. Ma non mandare nessun segnale di fumo, vedrai che quando sarà il momento ti troverò io.
Chi mai lo penserebbe che mi ha bloccata qui una nuvola vulcanica: mentre fumavo la mia ultima sigaretta in giardino, poco fa, il cielo era ricoperto di stelle.

venerdì 23 aprile 2010

non è l'amore che va via


Ha piovuto tutto il giorno, i panni stesi non sono ancora asciugati.
Mi sono svegliata alle sei del mattino per un'ultima trasferta a Pisa.
Cielo plumbeo e la stazione non è più a cinque minuti a piedi come quando abitavo nella casetta di San Frediano.
La mia casa stamattina era raccolta in un risveglio silenzioso e ordinato.
C'era la camicia croccante stirata, c'era la luce acciaio e bianco, l'odore di legno e sapone e la caffettiera già pronta.
La mattinata è stata vorticosa e piena di facce amiche, complimenti e salamelecchi.
Un videomessaggio di congratulazioni dell'autore che abbiamo tradotto, il volume pubblicato, una pergamena con un nastrino rosso, strette di mano, una meravigliosa chiesa sconsacrata dove le parole volavano nella penombra e si sentivano appena.
In treno, l'unico treno sopravvissuto a uno sciopero di cui non sapevo niente, mi sono asciugata le ossa e ho ripreso i sensi dopo tutto il freddo che ho sofferto, e guardando fuori dal finestrino ho dato un bell'arrivederci al mio ultimo sogno nel cassetto.
E' stato quasi indolore, una cosa a cui sono abituata ormai, non mi pesa più come qualche tempo fa, non mi fa nemmeno più la rabbia che mi faceva prima. E' solo scivolato via col resto del paesaggio grigio, rotolando sui binari.

sabato 10 aprile 2010

e poi e poi e poi...

Nell'attesa che mi si asciughino i capelli mi distendo sul divano, il computer sulla pancia, tre o quattro pagine aperte. Ho montato mobili ikea stasera, e poi ho sistemato delle cose nei mobili ikea, e poi ho buttato con un giro di valzer l'ennesimo set di scatoloni e alla fine mi sono buttata sotto la doccia.
Domani ho una festa in un locale, e domattina sono libera, credo che andrò a cercare un vestito adatto. E poi ho due viaggi da fare; uno a Sud e l'altro a Nord, oggi ho comprato il volo e ho controllato i bus di trasferimento.

Viaggiare, anche per due o tre giorni, è sempre stata la mia medicina, ma stavolta il senso di libertà che di solito provo quando faccio click su "acquista volo" era un po' disperso in mezzo ai miei turbinii. Mi sento un po' in ansia, so che mi passerà presto, ma per una volta la mia prima reazione non è stata la solita sensazione di aria fresca nei polmoni.
Stavolta ho bisogno di avere in pugno la situazione, anche se non c'è niente da avere in pugno perché il bello di spostarsi è non avere troppe cose da programmare e poi non c'è nessun particolare rischio di imprevisti. C'è solo l'affetto di chi mi ospita, la voglia di vedersi, la necessità di respirare altro.

Poi c'è un sacco di lavoro in mezzo, un sacco di stanchezza nelle ossa, un sacco di disillusione, e anche un nuovo cuscino per l'artrosi. E poi un po' di soldi in meno sul conto.

Poi c'è la consegna dei diplomi del master, con annessa presentazione dell'opera tradotta, ai più fortunati comunicata in anticipo su facebook.
Mentre mi chiedevo come era possibile mi sono arrivate risposte e conferme del fatto che non sono i colleghi del master a frequentarsi su facebook, ma i docenti. Forse è proprio vero che c'è qualcosa che non ho capito bene di certe dinamiche della vita (della mia vita?) allora.

Comunque no, non mi iscriverò a facebook.
Voglio conservare quella crepa nel muro da cui posso sgattaiolare via, se mi va.

venerdì 26 marzo 2010

cose che mi sono successe questa settimana

Alba, il solito cielo plumbeo.
Arriverà la primavera e il sole vero e proprio, io lo so.
Secondo me mi fa un dispetto per non farmi vedere la casetta piena di luce e riflessi di bianco e verde.

Ieri, in un tour de force micidiale di negozio, sono caduta dal panchetto che usiamo per prendere le cose che stanno negli scaffali alti.
Non sono caduta, in realtà il panchetto -che è una vecchia sedia di casa della titolare - si è spaccato in due sotto di me, facendomi precipitare verso il basso. In basso ci sono fiori, candele e soprattutto vasi di vetro e di terracotta.
Mi son detta, "eccoci, addio denti davanti", mentre cercavo goffamente di mettere le mani davanti alla faccia per proteggermi.
Invece no.
Sono caduta sopra l'unica cosa morbida di tutto il negozio: un cesto pieno di foglie di alloro.
"Sono le tue nonne che ti hanno preso per le bretelle"
dice la madre, che ci trova sempre qualcosa di magico animistico in queste cose.
A me piace l'idea delle bretelle, in effetti. Come avere sempre un gancio a cui sei appesa, e quel gancio è fatto di un invisibile e potentissimo affetto.

Oggi, mentre uscivo da un appuntamento, ho trovato un attaccapanni super kitsch.
L'ho preso, ma poi non sapevo come fare a portarlo via.
Allora due sgomberatori che stavano lì a fumare mi hanno detto "se ci dai 15 euro per pagarci il pranzo te lo portiamo noi".
Così feci. Ora l'attaccapanni è con me in negozio, gli sgomberatori stanno paranzando al bar, e questa vicenda mi sta facendo vedere in rosa tutta la giornata.

Per finire, durante la notte mi sono svegliata col solito incubo e ho acceso il pc per vedere una puntata di una serie tv a caso, ormai lo faccio spesso.
Ho guardato Ally McBeal, e ho pescato una puntata in cui ci sono Sting e Robert Downey Jr che cantano insieme Every Breath You Take.
In merito a quest'ultimo punto, volevo avvisare tutti di smetterla di dirmi che sono fatta di ghiaccio, perché non è vero.

martedì 16 marzo 2010

(...even though it's breaking...)

La scorsa settimana finalmente ho comprato dei tulipani arancioni (era una piccola promessa che avevo fatto a me stessa), ieri finalmente ho ritrovato una piantina di narciso tête-à-tête (oh sì, come ai vecchi tempi) e venerdì ho appreso dal Venerdì di Repubblica che in Italia finalmente con la riforma dei licei il liceo linguistico non sarà più solo privato.
Questione di punti di vista. Mio padre ha insegnato per gli ultimi quindici anni della sua carriera in un liceo linguistico pubblico e, statalista com'è, non gli ha fatto piacere leggere che nessuno si è accorto che la sua scuola esisteva.

Dovunque mi giri vedo cose fatte con i piedi, vedo volti tirati e disillusi, vedo grandi punti interrogativi e mani vuote. E poi melma.
Quello che ho io ho fra le mani è un fascio di tulipani ormai sfioriti che sembrano l'urlo di Munch con tutto quel nero dentro, una piantina che aspetto di veder fiorire e un uomo che mi ha dato un ultimatum, e incredibilmente tutte queste cose mi strappano un sorriso.
Questa sarebbe un'altra storia, se non fosse che non lo è.

Io sorrido per combattere contro il dolore che mi prende, contro il senso di vuoto.
Io sorrido perché sorridere mi cura le cicatrici e perché ormai delle rughe d'espressione me ne sono fatta una ragione.
Io sorrido per dissimulare, forse è vero, e impedire che si noti questo mio tremore continuo.

Io sorrido anche se mi dicono che le cicatrici non sono cicatrici, se fanno ancora male.

giovedì 11 marzo 2010

una mattina

Mentre aspetto che finisca la lavatrice mi bevo una tazza di tè e mangio una fetta biscottata col miele. Le mie fette biscottate preferite.
Dopo un paio di cene spericolate e un paio di notti a lavorare fitto fitto ho inaugurato la settimana dormendo.
Una dormita da competizione, di quelle con tutti i telefoni staccati, con l'orologio digitale sul comodino coperto da un maglione per non sapere mai che ora sia, e -cosa che non faccio mai- con le persiane e gli scuri perfettamente chiusi. Ho dormito una quantità di ore di cui adesso un pochino mi vergogno e sono sicura che erano almeno dieci mesi che non lo facevo. Forse di più.
Ho passato intere notti in bianco e ho dormito una media di due o tre ore per tutto l'anno scorso e per i primi due mesi di quest'anno.
E adesso dormire una mattinata intera mi sembra una cosa terribilmente trasgressiva, una sensazione paragonabile a quando a diciotto anni uscivo di nascosto di notte per andare a ballare e tornavo alle sei del mattino zitta zitta con i tacchi in mano sperando di non svegliare nessuno.

E non importa se, come era ovvio, durante quel sonno lunghissimo mi sono autopunita sognando, perché poi mi sono svegliata e intorno c'era silenzio e c'era la caffettiera azzurra già preparata sul fornello, e la casa faceva le facce e tutto il resto è rimasto così, in perfetta sospensione.

mercoledì 24 febbraio 2010

movimento

In un mondo perfetto al concerto dei Glorytellers ci sarebbe tanta gente entusiasta, invece sabato al concerto dei Glorytellers eravamo in dodici. Siamo diventati venti verso il finale, perché dopo il concerto mettevano i dischi per ballare e un po' di gente ballerina era arrivata in anticipo.
In un mondo perfetto la Fiorentina vince lo scudetto una volta ogni tanto, il lavoro non arriva tutto in un giorno e poi si ferma per dieci mesi, i muratori non trapanano per sbaglio sul tubo del termosifone e la bolletta del gas non supera il costo di un mese di affitto.

Ma il mio mondo è imperfetto e a me piace pensare che ho la testa abbastanza dura per starci in mezzo a fare il bastian contrario.
Così sono fra i dodici che vanno al concerto dei Glorytellers, tifo per la mia squadra come se lo scudetto lo stesse per vincere davvero (ma solo la domenica, il lunedì già non mi interessa più); faccio le nottate per finire il lavoro che mi capita fra capo e collo tutto in un giorno, perché penso che se lo faccio molto bene poi si moltiplicherà come i pani e i pesci, basta avere pazienza; mi lavo i capelli nell'acquaio in cucina in attesa che il tubo del bagno sia riparato e metto tre maglioni per poter spegnere il riscaldamento.

Sia chiaro: questo non fa di me né un ottimista né un cuor contento.
Perché brontolo e brontolo comunque.
Ma penso che in qualche modo bisogna pure andare avanti, benché brontolando.

martedì 16 febbraio 2010

sottosopra

Ho scritto tre post e li ho cancellati tutti e tre.
Mi stancano le mie chiacchiere.

Quando proprio mi obbligano a parlare di me, racconto delle cose selezionate e -spero sempre io- non troppo imbarazzanti. Come il sogno in cui mi avevano mozzato la testa e io me la ricucivo al collo con la spillatrice.
A me sembrava abbastanza splatter e mi aspettavo un commento severo e una serie di domande severe.
Invece mi hanno detto che è un segnale positivo.

Bah. Valli a capire i sogni.

martedì 2 febbraio 2010

cristallo

Eppure non è facile.

Uno pensa che una cucina bianca sia sufficiente, una cucina bianca e straordinariamente bella per essere solo una cucina.
Uno si immagina la cucina, la luce del mattino, che è tanta e morbida, il bollitore sul fornello, e prima pagina su Radio Tre.
E mentre uno si immagina questo si immagina anche di essere sereno, di essere giudizioso e mangiare frutta e verdura cinque volte al giorno, di sorridere agli sconosciuti, di credere nel futuro, di credere che ci sia un futuro per il quale valga la pena di svegliarsi alle sette del mattino per ascoltare prima pagina, ascoltare cosa succede nel mondo e chiedersi come si può fare a migliorarlo.
E io mi sforzo di amare quella cucina bianca, mi sforzo così tanto che lacrimo, e poi mi rendo conto che una parte di me la ama veramente, tanto da lacrimare, eppure sento lo stesso un'eco di vuoto, una voce che ripete sempre la stessa cosa, che ripete sempre quello stesso vuoto.

Io sarò felice col bollitore sul fornello e Radio Tre nella cucina bianca.
Eppure non è facile.

giovedì 21 gennaio 2010

sotto zero

Ho delle giornate lunghe, faticose e uguali, punteggiate di telefonate ogni quarto d'ora, preventivi, ordini, clienti, beghe da risolvere, pranzi e cene e ricerca di vestiti in scatoloni sempre più complicati da tenere a bada. Alla sera, anzi, quando è già notte da un po', per dormire mi guardo qualche telefilm.
Di solito quelli banali, con le trame prevedibili e i colpi di scena a effetto, che mi fanno addormentare senza rimpianto se non arrivo alla fine e non so come si conclude l'episodio.
Ma sono giorni di grandi riflessioni e di vaga malinconia e ieri sono riuscita a ritrovarmi un cuore stretto stretto nel vedere una puntata di Grey's Anatomy in cui la super dottoressa cazzuta che ha appena perso un bambino e vorrebbe andare a lavorare già dopo cinque minuti, viene costretta nella sua stanza e, dopo una serie di circostanze, scoppia a piangere in un modo del tutto incontrollato e grida "cosa mi succede? Datemi un sedativo!"

Grey's Anatomy
piace a un sacco di gente che conosco, a me sembra un po' Beautiful solo con parecchio più sangue, cuori aperti, bisturi e qualche battuta arguta, eppure quando il dottore-fidanzato della super dottoressa cazzuta, grande e grosso e attraente arriva nella stanza di lei, non dice una parola e si stende sul lettino e l'abbraccia, ecco che mi si è rattrappito il battito e mi sono ritrovata con fazzolettino e lacrimuccia a dire "che meraviglia quel gesto" e poi immediatamente in "seh ma di che parlo, io quel gesto a mala pena lo conosco e adesso lo rifiuto come se fossi un cavo elettrico scoperto che può fulminare chi lo tocca".

Morale della favola: è più algida la biondina algida della dottoressa algida, perché ha algida anche l'immaginazione.

venerdì 15 gennaio 2010

la stanza bianca

In una casa silenziosa e piena di luce apro uno scatolone, poi un altro, e le mie cose sembrano rianimarsi, sembrano proprio diverse in quellla luce nuova e accecante.
Alle nove del mattino con addosso gli stivali di mia madre e un maglione di mio padre respiro calce e polvere e do una nuova vita ai libri, così schiacciati nei cartoni, alle tazze da tè, avvolte nelle pagine di vecchi giornali, alla poltrona, asfissiata sotto il cellophane.
Respiro anche io.
Respiro quel silenzio e quel bianco, e penso che ho proprio voglia di svegliarmi lì, di camminare in calzettoni sul legno chiaro, di farmi il tè di nuovo, col vecchio ma fedele bollitore verde, di accendere la radio.

Ho bisogno di spazio e di solitudine.

Inoltre ho bisogno che la gente la smetta di chiedermi, insinuare o alludere al fatto che in una casa nuova ci si va a vivere in due.

"Carina questa casa. Allora quando vi trasferite?"
"Vi?"

"Cambio casa, sto per trasferirmi in via tal dei tali"
"Ah bene! Ti sposi?"

" mm.. No."

"Vai a convivere?"
"..."

"Buongiorno, vorrei fare un cambio di residenza."

"Che c'è? Sei già stufa di vivere con la mamma?"

"No, è che sono troppo vecchia ormai. Sono così vecchia e rimbambita che non mi ricordo già più il momento in cui le ho dato il permesso di darmi del tu."
"Scusi..."

sabato 2 gennaio 2010

2010

C'è un vento gelido che soffia da qualche paese del nord, si infila al centro delle nuvole e le disperde e si sostituisce a questo caldo appiccicoso e umido. Finalmente si può smettere di respirare acqua, l'aria torna secca.

Se n'è andato il 2009.

La notte di capodanno sono andata a dormire in un letto che non è mio, con venti coperte tutte diverse una dall'altra, dopo aver riso, essermi ubriacata, aver saltellato e poi anche aver consolato ed essere consolata a mia volta.
Poi, alle quattro e mezza del mattino, mi sono resa conto che non sarei tornata a casa mia.
Allora mi sono incamminata per la via del ritorno lacrimando un po', un po' tirando su col naso.

Questo post è dedicato alla casetta di San Frediano.

Nella casetta di San Frediano sono successe tantissime cose.
Mentre camminavo fra le pozzanghere mi sono saltate addosso tutte sparse come perline cadute alla rinfusa da una collana spezzata.
La sera prima di laurearmi, quando ho appoggiato sul letto i vestiti che mi sarei messa.
La prima volta che ho visto la luna entrare dentro la stanza.
La sera estiva che ho passato a mangiare ciliegie sul balcone col vino bianco e i grilli.
Quel momento pazzesco in cui ho quasi perso i sensi mentre facevo l'amore.
Il mio amico che passa con me una notte intera per soccorrermi se mi fossi svegliata e mi fosse venuto da piangere.
Un mese intero passato a vomitare ogni notte dal dolore.
i litri e litri di tè consumati mentre studiavo.
Tutte le bellissime cose che ho letto.
Tutti i film guardati per prendere sonno col pc fra le coperte.
Un anno di sveglie alle 5 del mattino per andare al master e la città pietrificata e silenziosa proprio sotto il mio portone.
Il rumore del fiume e le campane della chiesa durante la notte.

Molto altro ancora, che non si può raccontare.